Innanzitutto, desidero ricordare che, nella mia prospettiva, la musica, la danza, la pittura, il teatro, ecc., sono meri “strumenti” attraverso i quali si manifesta il processo dell’improvvisazione. La scintilla primaria ha origine a livello neurologico, nei meccanismi del sistema nervoso e nelle complesse dinamiche della mente. Il sistema corpo/mente è fondamentale, poiché l’improvvisazione è un’attitudine che, ancor prima di manifestarsi in movimento, parole o suoni, ha radici nelle profondità del nostro essere.

Se finora ho affrontato l’argomento prevalentemente dal punto di vista fisiologico, ora mi concentrerò maggiormente sugli aspetti mentali. Siamo di fatto di fronte ad un vero e proprio “stato mentale” che come tale risente di tutte le influenze e le variabilità tipiche di questa sfera.

Tutto è partito dalla necessità e dalla curiosità di dare più o meno risposta ad alcune domande. Tutto è partito, in pratica, da ciò che l’improvvisazione dovrebbe assolutamente evitare, il pensare e il cercare di capire. Tuttavia, i dubbi erano ormai venuti alla luce, e la ricerca era diventata una necessità.

Altri fattori mi spingevano. Riconoscevo con dispiacere che questo stato appagante di “quasi grazia”, come lo definirò alla fine di questo capitolo, non era continuo. Le perdite di concentrazione e le uscite dal flusso erano numerose e spesso prive di un motivo apparente.

Perché ci si perde? Cosa si può fare per rientrare nel flusso? Questi erano alcuni dei miei interrogativi più frequenti. Tale ricerca mi indirizzava, con il suo procedere, sempre più vicino al tentativo di comprensione del “qui ed ora”, elemento che anche dal punto di vista fisiologico è essenziale per l’improvvisazione. Ho realizzato che mente e corpo hanno meccanismi simili.

“Non si può essere consapevoli del fatto che si sta improvvisando. Nel momento in cui lo si realizza scindiamo noi stessi da ciò che stiamo facendo…e la magia finisce.”

Ed è proprio quando viviamo questa separazione che sorgono domande, dubbi e incertezze. Quella magnifica sensazione termina o si attenua nel momento in cui cerchiamo di razionalizzare gli accadimenti. Il “guardarsi da fuori”, pur prestigioso in molti percorsi di realizzazione, non è qui sufficiente. Dobbiamo sublimare il concetto quantistico in cui l’osservatore influenza il fenomeno, al punto di far coincidere l’osservatore con l’esecutore stesso. E’ un vero e proprio “stato alterato” in cui ci sembra di essere ovunque e in nessun luogo.

“Chissà perché le improvvisazioni più belle avvengono sempre quando siamo soli, senza nemmeno un registratore o una videocamera accesa.”

Forse perché improvvisare è un gioco che si svolge principalmente con se stessi? Qualsiasi occhio esterno, anche un registratore, sembra alterare il processo, portandoci a pensare a una possibile futura riproduzione e modificando, anche se ad livello inconscio, la finalità della nostra esecuzione. Si perde la purezza del momento, e si introduce il concetto di un possibile “giudizio”, soprattutto da parte nostra. In realtà, è proprio quando non si cerca di dimostrare niente a nessuno che si è nella condizione migliore per esprimere il proprio potenziale. Non c’è paura, accogliamo gli errori e ci apprezziamo persino di più.

Tutto ciò è la conseguenza di un altro parametro: il tempo. Per definizione, l’improvvisazione è la risoluzione istantanea di qualcosa che si manifesta in modo improvviso, inaspettato. L’imprevisto e la sua risoluzione dovrebbero idealmente verificarsi nello stesso momento (ciò a cui tendiamo).

L’improvvisazione è un’esperienza che mira ad esistere solo nel momento presente. La registrazione è un processo che ci porta nel futuro, a quando sarà riprodotta, spostandoci energeticamente in avanti nella linea temporale.

L’improvvisazione è insaziabile; ciò che è stato fatto perde, un attimo dopo, il suo carattere di unicità e appartiene ormai al passato. Pertanto, tutto ciò che l’improvvisazione scopre e realizza rischia di diventare un pattern e quindi una distrazione per la sessione successiva. Al cervello, di natura pigra, piace ciò che funziona, e cercherà di riproporre, attraverso il potente computer dell’inconscio, ciò che gli è riuscito e/o piaciuto (anche se non più contestuale).
Il presente “unico e irripetibile” suggerirebbe inoltre che non ha senso riprodurre un’improvvisazione (performance) se non nelle stesse identiche condizioni mentali, fisiche e ambientali. Quindi, mai.

“Il presente dell’improvvisazione risiede in tutti quei momenti che di solito consideriamo passaggi verso qualcos’altro”.

Questo è stato il mio primo attacco ai nemici dell’improvvisazione. Il nostro sistema nervoso opera in gran parte per strutture e considera il passaggio da uno schema ad un altro solo come una sospensione, non particolarmente importante, verso un preciso obbiettivo futuro. Si proietta quindi verso il raggiungimento di una meta perdendosi il presente di ogni passo (il feedback sensoriale, nei pattern, si concentra all’inizio e alla fine del movimento). Acuire l’ascolto in quel varco che normalmente è considerato “poco significativo” apre un mondo intero di possibilità nuove, inattese e creative. E’ lì che vive il presente.

“Una certa capacità tecnica riesce a gestire una certa quantità di improvvisazione”.

Per esprimersi, la capacità di gestire lo “strumento” è necessaria, anche se non sufficiente. Ciò non significa che chi non ha tecnica sia impossibilitato all’improvvisazione, ma il potere creativo della mente potrebbe essere troppo libero e fantasioso per essere gestito dalle reali capacità del corpo. Si potrebbe facilmente cadere in uno stato di caos.

Il caos può essere anch’esso improvvisazione? Potrebbe esserlo, ma definiamo l’improvvisazione come una risoluzione. Stare a lungo in uno stato di disordine estremo, inoltre, può essere molto pericoloso per la salute fisica e mentale. Vero è che nell’improvvisazione l’ordine perde la sua rigidità e oscilla alla ricerca di un nuovo equilibrio per abbandonarsi, lasciarsi andare, sfidarsi e rischiare. Ma per mantenere una condizione di sicurezza, la destrutturazione non dovrebbe superare mai la soglia oltre la quale non siamo più in grado di recuperare il nostro centro fisico/mentale.

La tecnica, sebbene da un lato agevoli la canalizzazione degli impulsi improvvisativi, dall’altro crea un campo minato di trappole legate a gesti noti, schemi e familiarità, rischiando quindi l’esatto opposto di ciò che desidereremmo realizzare.

Il famoso detto “impara l’arte e mettila da parte” è qui perfetto.

“L’improvvisazione pura è sul filo del rasoio tra il conosciuto e lo sconosciuto, un margine in cui la possibilità di errore è alta”.

Grandi scoperte scientifiche sono il risultato di errori; considerati non tali hanno permesso di accedere a nuove informazioni che altrimenti non si sarebbero presentate. Ma cos’è l’errore se non “qualcosa di nuovo”, zuccherino perfetto per l’improvvisazione?

Abbiamo definito l’improvvisazione come una risoluzione, pertanto l’idea è quella di “risolvere l’errore”. Meglio sarebbe, “integrarlo” attraverso un movimento. Ciò implica, innanzitutto, rimuovere il suo sapore negativo di “sbaglio”.

Nella tecnica del Soundpainting (improvvisazione musicale), si proclama “Wrong Strong!!!” – ovvero, se qualcosa è eseguito in modo errato, ma con convinzione e determinazione, risulta efficace. Questa affermazione riflette una verità profonda: lo stato dell’improvvisazione soffre maggiormente per l’indecisione (troppi stimoli confusi che sovraccaricano il sistema percettivo) che per l’errore. Molti musicisti jazz suggeriscono “se commetti un errore, ripetilo ancora e ancora finché non sembra più tale”.

Enrico Fermi diceva: “Ci sono soltanto due possibili conclusioni: se il risultato conferma le ipotesi, allora hai appena fatto una misura; se il risultato è contrario alle ipotesi, allora hai fatto una scoperta”.

Un bravo improvvisatore è colui che riesce a risolvere e integrare il maggior numero possibile di errori (considerati non tali) in un flusso continuo. Ciò è possibile solo se il sistema nervoso non è in uno stato di stress, quindi nel parasimpatico. Pertanto, gli imprevisti, dovrebbero essere affrontati sempre con rilassatezza e, volendoli sfruttare al meglio sul piano della creatività, in un stato di “apprendimento percettivo” (il miglior approccio per l’integrazione). In pratica, impariamo dagli errori.

Se l’errore è una buona occasione, la paura di sbagliare invece è un acerrimo nemico. Generando ansia, tensione e aspettativa, come ormai ci è chiaro, non si creano le condizioni ideali per una danza di improvvisazione.

Il crinale che percorriamo, dunque, ha da un lato il rischio del caos e dall’altro il terreno sicuro e confortante del conosciuto, degli schemi, della struttura acquisita con lo studio.

In quest’ultimo ambito, l’improvvisazione è assente, ma ci percepiamo sicuri, stabili e rilassati. Se perdiamo il fragile equilibrio dell’improvvisazione, è senza dubbio più sicuro cadere verso la struttura (qui l’importanza della tecnica) piuttosto che in un disordine (caos) da cui probabilmente non riusciremmo a ricostruire le basi per ripartire. Ritornare allo schema rappresenta un rifugio, certo, ma non dobbiamo dimenticare che è anche la trappola del ripetitivo, dell’assenza di novità, del conformismo in casi estremi.

I momenti migliori della nostra vita non sono quelli passivi, ricettivi, rilassanti. I momenti migliori di solito si verificano se il corpo o la mente di una persona sono tesi al limite in uno sforzo volontario per realizzare qualcosa di difficile e utile (Csikszentmihalyi).

Interessante è la connessione con la teoria del Flow elaborata nel 1990. L’improvvisazione ha caratteristiche simili a quelle descritte da Csikszentmihalyi che nel suo saggio descrive il Flow come un vero proprio stato mentale connesso ad un’esperienza molto appagante e in grado di dare un senso di felicità. L’autore descrive quel momento, in cui si è completamente assorbiti da qualcosa, come uno stato di sforzo (non percepito come tale) in cui la sfida è appena oltre le nostre capacità. Come già detto, oltre sarebbe caos (ortosimpatico) e quindi nessun flow.

Il mero “lasciarsi andare”, quindi, non può essere considerato improvvisazione; al contrario, la sua preponderanza di attività inconscia lo contraddistingue come l’esatto opposto. Ritengo che possa risultare utile in una fase iniziale, poiché tendiamo naturalmente a essere un po’ iperstrutturati. Tuttavia, nel momento dell’improvvisazione, il nostro atteggiamento dovrebbe essere attivo, concentrato e focalizzato. I Buddhisti hanno una definizione che rende molto bene l’idea: “Lo sforzo gioioso”.

Concludendo, l’improvvisazione totale e continua, a mio avviso, è una sorta di stato di grazia, un sentire la propria esistenza nel flusso della vita.

Autorizzare l’espressione di noi stessi, in uno spazio creativo, ci permette di riconoscerci come esseri unici, irripetibili. Rispon- diamo ad ogni stimolo che riceviamo e lo traduciamo attraverso il nostro corpo in un’espressione di movimento. Non esiste, o meglio non dovrebbe, esistere una danza uguale ad un’altra.

In questo stato, ordine e disordine perdono significato in quanto non c’è nulla che possa giudicare, nulla che sia al di fuori di ciò che è. Quando l’improvvisazione ha successo, si sperimenta una forte sensazione di piacere e realizzazione, una percezione che le cose sono dove dovrebbero essere.

Esplorare l’ignoto richiede una piccola perdita di controllo, un abbandono di schemi o credenze, comportando, come ogni processo di crescita, un certo rischio. Abbiamo improvvisato per fare i primi passi, la prima pedalata, alla nostra prima partita di ping pong, in ogni occasione in cui abbiamo dovuto esplorare, spesso commettendo errori, per trovare una soluzione. Quando smettiamo di sfidarci, di metterci in gioco, di improvvisare, smettiamo di crescere. Il sistema propriocettivo cessa di evolversi, e cominciamo a perdere la percezione di noi stessi.

Credo che l’improvvisazione sia un affascinante percorso di ricerca per definire chi siamo e il nostro potenziale. È un veicolo che ci proietta verso un’idea di noi stessi completamente realizzata, al di là del giudizio e del riconoscimento. Spesso mi sono chiesto “come mi sento” al termine di una bella improvvisazione, realizzando che percepisco un cambiamento che va oltre la sfera fisico-mentale. Consentire alla mente e al corpo di restare nel presente, è, a mio avviso, un bisogno innato dello spirito di evolversi.

Dietro ogni improvvisazione, vedo un individuo che cerca, che si confronta con il suo potenziale e con se stesso. Sono sempre stato affascinato da quei musicisti che sembrano trasformare lo strumento in una estensione di sé stessi, dagli attori che diventano scenografia, dai giocolieri che padroneggiano così bene l’oggetto manovrato che sembra essere parte del loro corpo. L’artista, lo strumento e l’atto performativo si fondono in un’unica essenza. E’ un’esperienza mistica.

In alcuni contesti, l’improvvisazione funge da sorgente ispiratrice per la creazione di opere, che siano esse canzoni, coreografie, o altro. Questo equilibrio delicato integra nuove scoperte all’interno di una struttura più o meno rigida, ma riproducibile. La sinergia tra tecnica e improvvisazione può manifestarsi in molteplici modi fino a renderci “maestri di noi stessi”. Ritengo che questo costituisca il fondamento dell’apprendimento per gli autodidatti, una via che non a caso ritroviamo tracciata in molti artisti.

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